Daccapo...

“Camminando per la città, tra gli edifici che la popolano” si può notare come “taluni siano muti, altri parlino, mentre, altri ancora, che sono i più rari, cantano”. Lo diceva Paul Valery e lo sottoscrivono in pieno Tommaso Polvani e Ilaria Pianigiani, architetti giovani ma già consapevoli delle responsabilità che accompagnano il loro mestiere. Un mestiere che si fonda sulla capacità di studiare, conoscere e ricominciare, ogni volta, daccapo.

Ci sono personaggi che vivono del loro nome. Specialmente in ambiti in cui la creatività, e tutto ciò che rimanda ad essa, assume un ruolo preminente, raggiungere lo status di guru, di maestro (o di maèstro, che fa ancora più chic) equivale a staccare un abbonamento per la venerazione. Si viene cercati, interpellati e accolti in base alla firma che si può apporre su un quadro, su un libro o su un progetto. E poi ci sono quelli che ogni giorno cercano di migliorare il proprio lavoro, di cercare soluzioni diverse e utili, giusto un metro più in là dei riflettori. Ecco, Tommaso Polvani e Ilaria Pianigiani rientrano nella seconda categoria. Poco più che trentenni, sposati con un bambino, eleganti (nei modi e nell’aspetto) e colti, sono un esempio di approccio consapevole all’architettura e al ruolo che riveste nella vita individuale e sociale di ogni essere umano. Ci incontriamo in un pomeriggio estivo, e forse anche per questo il nostro scambio di opinioni cade subito sulla loro formazione. “Erano gli ultimi giorni di un luglio caldo e interminabile. Dovevamo laurearci per quella data e invece era sempre un continuo e roboante ‘daccapo, daccapo, e ancora daccapo’. Tanta era la fatica e la dedizione che richiedeva avvicinarsi al mestiere dell’architetto. ‘Daccapo’era ciò che capitava spesso stando accanto al nostro professore, Gian Carlo Leoncilli Massi, recentemente scomparso, Ordinario di Cattedra di Composizione Architettonica, presso l’Università di Firenze. Oggi, a più di dieci anni di distanza, ringraziamo di avere fatto nostra l’esperienza di quel ‘daccapo’”. Ricominciamo ancora, dunque. E’ questa la chiave di lettura del loro lavoro, firmano progetti di restauro di suggestivi borghi in Chianti  e di progetti urbani di grande rilievo. Il loro studio – Polvani Pianigiani Associati, nato nel 1999 – pensa al suo agire come ad un aperto confronto tra storia e segno contemporaneo, attinge dalla tradizione rivisitandola, talvolta citandola, manipolandola, considerandola un punto di partenza per  ogni nuovo progetto.

Oggi questo termine “daccapo”che valore ha nel vostro modo di lavorare?

“Traduce gli intenti di un programma che, attraverso la rilettura dell’architettura classica, tende a superare la condizione della crescita della città per ristabilire il principio d’ordine per il quale l’architettura deve garantire soprattutto continuità. Daccapo significa ristudiare, rivisitare, riprendere e riscoprire; la nostra è prima di tutto una disciplina sociale e nei suoi caratteri stilistici, per essere suscettibile di diffusione, deve formare con il complesso delle forme e degli spazi esistenti un tutto armonico e omogeneo”.

Oggi l’immagine dell’architettura è prettamente televisiva, fatta di consumo, figlia di pubblicazioni di qualsiasi sorta o partito. Si assiste, forse, a una semplificazione del mestiere dell’architetto dove il prevalere della cultura delle riviste, lo costringe a cicli mensili di progetti? Chi avrà il coraggio di ricominciare daccapo?

“L’architetto Aldo Rossi parla del proprio lavoro come un’attività svolta non in un studio professionale ma, retoricamente, in una “officina”. La parola, con tutto l’immaginario che si porta appresso, definisce un modo di operare lontano dall’architettura ingannevole delle riviste. Nella civiltà dei fast-food, l’architettura, come il cibo, sta diventando sempre più un optional, da consumare nel più breve tempo possibile. La cosmesi della sola apparenza riduce a una sorta di balocco l’architettura, e tende a cancellare l’approccio storico, il piacere dell’esplorazione e l’esercizio della fantasia. L’invenzione - che non a caso nella sua radice latina di inventio sta per ri-trovare - è tutt’altro che creazione “ex-nihilo”. L’attività creativa, la fantasia si estrinseca nella continua re-invenzione, trasformazione di temi dati”.

Come ci si deve muovere allora?

“Occorre in primis trovare, o meglio ri-trovare, l’idea che darà forma al progetto. Non si tratta di progettare, ma di comporre. Fare ricorso alla memoria, leggere le figure architettoniche della storia, trasformarle in nuove forme spaziali attraverso la variazione, nuove parole in merito alla vecchia forma. Il mestiere dell’architetto o di chi lo sta diventando, è difficile. Difficile perché come diceva A. Loos ‘L’architetto è un muratore che ha studiato il latino’. In più un’opera di architettura, a differenza di un’opera d’arte - che è faccenda privata dell’artista e non ha bisogno di piacere a nessuno - soddisfa dei bisogni, è al servizio di uno scopo, e quindi presuppone un livello di responsabilità maggiore”.

Alessandro Mendini, nella nostra pubblicazione della scorsa primavera, a proposito del generale imbarbarimento, suggerisce la “tradizione artistico - rinascimentale” come unica via di uscita, una sorta di processo a ritroso finalizzato a riformulare un pensiero architettonico corretto.

“Ormai è convinzione comune che il ‘bello’ sia fatto soggettivo. È altrettanto vero che camminando nei centri storici di città come Venezia, Firenze, Roma, immersi in tutto ciò che ci circonda, si rimanga profondamente affascinati. La Biblioteca Laurenziana, la Cupola del Duomo, la Galleria degli Uffizi inducono profondo rispetto, a tutti. Non solo, ma chi attraversa questi spazi percepisce un’evidente sensazione di felice equilibrio. L’architettura riconosciuta entro precisi campi storici, segnati da Alberti, Bramante, Palladio, Piranesi, Terragni, Ridolfi, Michelucci, Libera, è la strada che tenteremo. Non è archeologia, né la restituzione metrica di improbabili replicanti. È necessario riappropriarsi dei concetti della triade Vitruviana, della concinnitas Albertiana, ovvero del rapporto tra le parti ordinate secondo leggi precise, della grande pianta wagneriana. Le letture saranno la guida di una continua riflessione, ‘pezze di appoggio’ per il formarsi del pensiero architettonico. Recuperare l’arte del costruire è obiettivo difficile: il costo in termini di fatica è molto alto, ma il raggiungimento anche parziale di questo traguardo merita tutti i nostri sforzi”.

Allora proviamo a ricapitolare: sembra che siate contro un’architettura tecnologizzata, interessata solo alle funzioni d’uso, o solo presa dal risultato estetico/formale. L’esperienza e il tempo stanno modificando questo approccio?

“No! Siamo convinti, e non senza paura, che la relazione tra uno spazio o un oggetto e le persone sia l’unico approccio possibile per il ‘bel’ progetto. Il paradosso più grande è sentire parlare di “bei” progetti, di progetti “vincitori”, quando essi o si vedono pochissimo all’esterno nel confronto con il contesto, o all’interno sono una grande abbuffata di computer e di design. Il disegno urbano deve comporsi creando lo spazio. Come si può confezionare un progetto che potrebbe stare in qualunque luogo? È come parlare di progetto che non solo dimentica la città e il contesto come eredità, ma ignora che comunque produrrà architetture in altri architetti un giorno. Il non riuscire a superare la fatica dell’incapacità di non sentirsi all’altezza del compito, o di difendersi dalla certezza di produrre cose banali, è un interrogativo che ci portiamo dentro”.

Da che cosa traete lo spunto per un nuovo lavoro?

“Un metodo per progettare non esiste; progettare o comporre non è matematica. Riteniamo che attenersi a comportamenti generali, come ordine, misura, consonanza e dissonanza alla tradizione, aiuti a costruire la propria scatola degli arnesi. Dare significato a parole come variazione o dissonanza, trovare unità o rompere la continuità, modificare una forma in contrapposizione ad altre, è un processo che non appartiene a una lezione o a un testo: deriva da un arricchimento intellettuale che deve essere sempre alimentato. Progettare è fare esercizio della memoria. Se il pubblico potesse gettare uno sguardo dietro le quinte, alle elaborate soluzioni, agli innumerevoli sprazzi di idea, alle fantasie maturate e poi scartate perché difficilmente maneggiabili, alle caute scelte e ai cauti rifiuti, alle dolorose cancellature. Solo allora forse si comprenderebbe quanto complessa è l’evoluzione; e proprio in questa complessità in fondo sta la bellezza”.

Nella vostra scala di valori, che importanza date alla cantierizzazione dell’opera?

“Entrare in contatto con Richard Meier è stato davvero molto formativo. Apprendere la metodologia di lavoro di uno studio di architettura tra i più grandi del mondo, ci ha fatto capire quanto vengano  approfonditi gli aspetti legati alla costruibilità dell’opera progettata. La fortuna di essere figlio di un imprenditore nel ramo delle costruzioni (dice Tommaso Polvani, Ndr), ha sviluppato in me la consapevolezza che un’opera è fatta per restare”.

 


Privacy Policy Cookie Policy